Rebeca Pak e Gabriella Rebello Kolandra in conversazione
GK
Ci racconti Terriccio Universale?
RP
Terriccio Universale è una serie di azioni iniziate nel 2019, che ha visto nella città di Milano il suo primo campo di attivazione. Seguita da Roma, durante un evento correlato alla mostra “La strada: dove si crea il mondo” al MAXXI, e da Šiluva, dove nel 2021 è stata commissionata e presentata in occasione della 2nd Šiluva Art Biennial, in Lituania.
L’azione consiste nel chiedere aiuto per trasportare un sacco di terra preconfezionato – il cosiddetto ‘terriccio universale’ – da un punto A a un punto B, che cambia a seconda della città. In ogni contesto, il lavoro assume forme diverse, seguendo ritmi e risposte non programmate che vengono dettati dai passanti. Mi interessa ciò che accade ad ogni incontro lungo il percorso: gli imprevisti e lo scambio di ruoli tra chi domanda e chi accoglie.
L’happening nasce dall’idea della terra come luogo d’origine, di appartenenza e d’identità. È un tema per me intimo, legato a un episodio familiare: il ritorno di mio nonno, emigrato in Brasile negli anni Sessanta, per visitare la tomba dei suoi genitori in Corea. Nella tradizione funeraria coreana la sepoltura si costruisce con cumuli di terra, sassi, rami, foglie, tutta una materia organica che prende forma sul luogo. Questo gesto di costruzione non è mai individuale, ma parte di un processo collettivo: durante il funerale, compiti e ruoli vengono condivisi, e ciò che si crea è un momento di comunità.
GK
Nel tuo lavoro, infatti, il corpo viene spesso adoperato come mezzo d’indagine e messo in relazione con la dimensione urbana e architettonica degli spazi che attraversa. Comprendo che alla base delle tue opere esiste un’investigazione personale, continua ed esaustiva, alla ricerca di qualcosa. La tua identità, plasmata dalle tue origini brasiliane, radici coreane e dalla tua lunga condizione di permanenza italiana, costituisce nella tua pratica un interesse centrale. Potresti parlare del modo in cui vedi la costruzione di un’identità?
RP
Credo che, come esseri umani, tendiamo da sempre a dare nomi e definizioni a ciò che ci circonda – persone, oggetti, situazioni – quasi per non restare “al buio” di fronte all’ignoto. In questo processo creiamo categorie e, di conseguenza, confini. Spesso però questi confini vengono imposti all’altro, che finisce per interiorizzarli e riconoscerli come propri. Penso, per esempio, ai feticci o alle microaggressioni a sfondo razzista: sono temi che ritornano spesso anche nel lavoro di altri artisti con background diasporico. Quando parlo di identità “in transito”, mi riferisco a uno stato che è, per sua natura, sempre in movimento: a seconda delle circostanze, di un dato momento o di un contesto specifico, alcuni aspetti dell’identità vengono continuamente rinegoziati.
GK
Il termine ‘universale’ porta con sé un’idea di omogeneità e, secondo Édouard Glissant, tende a imporre un modello unico di cultura, a omologare o cancellare le differenze. Per confrontare questa visione Glissant propone il concetto di “tout-monde”, che affianca il suo pensiero sulla relazione: ogni cultura è parziale, situata, e la propria ricchezza sta nell’intrecciarsi con le altre senza ridursi a un comune denominatore. La relazione, in Glissant, riconosce la pluralità, le opacità e le differenze irriducibili. Quando affidi il sacco di terra ai passanti, introduci una dimensione di fiducia e vulnerabilità al lavoro. In che misura questo gesto si relaziona al pensiero di Glissant?
RP
Oltre alla fiducia e alla vulnerabilità, credo che ci sia soprattutto la volontà di iniziare un dialogo, di fare un primo passo dentro l’ignoto, che è l’altro. In questo percorso, fiducia e vulnerabilità diventano inevitabilmente parte intrinseca. Il terriccio qui parte come rappresentazione delle origini, la concretizzazione di relazioni ramificate nel tempo e nello spazio. Chiedere a uno sconosciuto di portarlo è chiedergli di assumere questa carica, di accettare l’invito a un incontro, a un conoscersi reciproco. Poi, inevitabilmente, anche il titolo di questo lavoro porta con sé una connotazione legata al territorio: al fatto di avere un pezzo di terra, e agli sfruttamenti di cui questa terra, nella storia, è stata testimone. Dentro il termine “universale”, invece, c’è una sorta di falsa armonia, se la guardi da una prospettiva occidentale, come se davvero l’universalità fosse arrivata a tutti, in maniera equa e senza criticità. Terriccio universale… In un certo senso, rende il titolo ironico, no? Questo atto di universalizzare fa parte di un pensiero dell’impero, in cui si generalizza per evitare e spesso annullare “i conflitti”.
In contrapposizione a questa logica dell’universale, durante l’happening Terriccio Universale, nel relazionarsi con l’altro, emergono situazioni di ambiguità e continue rinegoziazioni, di reciprocità e differenze, che seguono piuttosto l’idea di Glissant del “tout-monde” di “una dimensione di libertà totale (sognata) dei rapporti, tracciata nel caos stesso degli scontri”.
GK
Un altro riferimento teorico che proponi è il saggio del 1997 Anne Dufourmantelle invite Jacques Derrida à répondre de l’hospitalité, che si sviluppa attorno al concetto di ospitalità: accogliere, per Derrida, implica sempre un potere di decidere, e quindi anche la possibilità di escludere. L’ospitalità diventa così un orizzonte che guida la politica, le relazioni e persino il linguaggio. Potresti raccontare come questa idea influisce nella concezione del tuo lavoro?
RP
Mi affascina tanto la riflessione che Derrida sviluppa in questo saggio. Lì, si sofferma sulla polisemia della parola hôte, che in francese – così come “ospite” in italiano – indica sia chi accoglie sia chi è accolto. Già in questo gioco linguistico si apre un mondo per ripensare la complessità di ogni dinamica che coinvolga almeno due individui e che, inevitabilmente, riflette relazioni di potere. L’ospite esiste solo se esiste un altro ospite, sia nella posizione di accogliere sia in quella di essere accolto.
Durante l’azione, il passaggio del sacco trasforma il rapporto tra ospitato e ospitante in un vertiginoso scambio di ruoli: nel chiedere a un passante di aiutarmi con il sacco di terra, mi metto in una condizione di vulnerabilità, a dipendere da una conferma o un rifiuto. Quando l’altro accetta il carico tra le sue mani, i ruoli si capovolgono e il disagio si trasferisce al passante, mentre io resto in una posizione più distaccata, di osservazione.
Poi, mi interessa molto questo dialogo diretto che si sviluppa in relazione alla cornice curatoriale che hai proposto: nel Teatro Oficina a San Paolo si ribaltano le posizioni e gli sguardi tra chi è ora spettatore, ora partecipante. Sia in uno spettacolo del Teatro sia nell’happening Terriccio Universale, si crea un incontro tra ciò che è reale e ciò che è fittizio, tra la vita e il “teatro” (anche se penso che il teatro possa trovarsi in quella soglia tra il reale e il fittizio). Il coinvolgimento nell’evento conferisce alla situazione un carico ambiguo: la richiesta di trasportare il terriccio è reale? O è costruita?
GK
È interessante pensare che uno dei punti di partenza per pensare il programma di quest’anno di Platea sia, appunto, il Teatro Oficina di Lina Bo Bardi a São Paulo, città dove sei nata. Qui il Teatro è servito come base per pensare al nuovo rapporto che volevamo provare a istituire tra la vetrina e lo spazio urbano. L’opera di Margherita Moscardini, artista che ha inaugurato il palinsesto, resta infatti come elemento fisso nello spazio di Platea: una scala-scultura che segna e trasforma lo spazio aperto 24/7, chiamando chi viene dopo a confrontarcisi. In questo quadro, com’è stata per te l’esperienza di realizzare il lavoro nella città di Lodi?
RP
È stato molto curioso. Pensavo che essendo una città più piccola, ci avrei messo molto di meno e che più persone avrebbero partecipato. Delle 22 persone con cui mi sono interfacciata, 18 mi hanno detto “no” e 4 “sì”. Per avere ancora più in chiaro il significato di questo risultato: sono stati più dell’80% a negare l’aiuto. Allo stesso tempo, è stata l’unica città in cui qualcuno si è offerto di tenere il sacco, addirittura prima che glielo chiedessi io.